Nata a Boston nel 1932, Sylvia Plath viveva in una casa vicino all’oceano, con il padre professore, morto prematuramente per un’infezione, e la madre Aurelia, tutta presa dalle cure della casa e del primogenito.
Alla madre Sylvia scrisse poi per tutta la vita lettere sulla sua vita brillante, l’eccellenza negli studi, i riconoscimenti al precoce talento letterario, i numerosi corteggiatori.
Ma la giovane donna visse nell’ombra della depressione che oscura tutte le pagine del diario, anche la parte sulla sua relazione con Ted Hughes, poeta laureato d’Inghilterra, che la coinvolse in un rapporto autodistruttivo per entrambi.
Un crollo nervoso seguito dal primo tentativo di suicidio non impedì alla Plath di concludere gli studi allo Smith College e di vincere una borsa di studio per Cambridge nel 1955.
In quel ricco contesto universitario Sylvia e Ted si conobbero a una festa e tra di loro scoccò il colpo di fulmine.
Sylvia sognava di essere una grande poetessa e scrittrice, mentre Ted sarebbe stato il più grande poeta di lingua inglese del mondo.
Ma se Hughes usava i sogni per scrivere, per la Plath la scrittura era vissuta con l’inadeguatezza delle sue parole, al punto di confrontare i propri versi con quelli dei poeti che più amava.
Durante un soggiorno a Boston, mentre cercava di far conoscere agli americani la poesia del marito, la poetessa frequentò i corsi di scrittura creativa del poeta Robert Lowell e divenne amica di Anne Sexton, al punto che condividevano bevute di martini e racconti dei tentati suicidi ogni settimana dopo le lezioni.
Un soggiorno nella colonia artistica di Yaddo vide Sylvia e Ted in attesa del primogenito, con lei intenta nella composizione di quello che sarà il suo primo libro di poesie, il Colosso.
La figlia Frieda e il libro nacquero nello stesso mese, a Londra, nel 1960, ma fu il Devon, dove gli Hughes vivevano in una fattoria, lo scenario della fine della loro storia.
Ogni fatto della vita, quotidiana, intima o sociale, fu narrato nella poesia e nella narrativa della Plath, come il romanzo La campana di vetro, sulla sua depressione, pubblicato sotto pseudonimo per non ferire i famigliari, che ebbe un buon successo nel 1961.
Mentre Ted andava spesso a Londra per prendere parte a presentazioni e reading radiofonici, Sylvia era una casalinga di campagna, ruolo che sentiva sempre più stretto, al punto che, in preda alla gelosia, arrivò a distruggere il manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di Shakespeare del marito.
Neanche la nascita del secondogenito Nicholas aiutò la coppia, tanto che Ted s’invaghì di Assia Wevill, moglie di un amico, e Sylvia lo cacciò di casa.
Durante l’ultima vacanza della coppia in Irlanda, un amico consigliò a Sylvia di non divorziare per una storia che non sarebbe durata, ma lei non lo ascoltò.
Tra la fine di settembre e i primi di dicembre scrisse le quaranta poesie di Ariel.
Il ritorno a Londra con i figli coincidette con l’inverno più freddo del secolo, che fece gelare l’acqua nelle tubature, mentre a poco a poco la Plath perse le volontà di vivere.
L’11 febbraio 1963, dopo avere messo al sicuro i figli nella loro cameretta, con la finestra socchiusa e un piatto di pane e latte, la Plath s’inginocchiò davanti al forno, poggiò il capo sul piano e morì sola.
Anche la vita della famiglia di Hughes, dopo la morte della moglie, non fu esente da tragedie prima e dopo la morte del poeta nel 1998, infatti Assia Wevill nel 1969 si suicidò con la figlia Shura, avuta dal poeta, nella sua casa di Londra, mentre nel 2009 il secondogenito Nicholas si tolse la vita impiccandosi.