The Missing Planet, il nuovo spazio per mostre di Prato, apre una nuova mostra, ideata dalla direttrice Cristiana Perrella per approfondire temi, periodi e linguaggi della collezione del Centro Pecci, affidandone la cura a un esperto come Marco Scotini , affiancato dal responsabile delle collezioni e archivi Stefano Pezzato.
La mostra, aperta fino al 3 maggio, vede decine di opere della collezione del Centro Pecci con altre provenienti da importanti collezioni e istituzioni italiane e internazionali, per raccontate le principali ricerche artistiche sviluppate nelle ex repubbliche sovietiche tra gli anni Settanta e oggi, dalla Russia alle province baltiche, caucasiche e centro-asiatiche.
A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla successiva dissoluzione dell’URSS, si torna alla prima mostra che il Centro Pecci dedicò alla scena artistica non-ufficiale sovietica, sull’onda della Perestrojka nella primavera del 1990, Artisti Russi Contemporanei, a cura di Amnon Barzel e Claudia Jolles, che testimoniò l’euforia del momento e la nascita di un sentimento di timore verso il futuro.
A questa prima mostra, il Centro Pecci ne fece seguire un’altra, Progressive Nostalgia, a cura di Viktor Misiano, che testimoniò la disillusione dello spazio post-sovietico sui processi di transizione e integrazione in Occidente, la crisi del capitalismo finanziario, dello smantellamento dei diritti sociali e della svolta autoritaria del liberismo, rimettendo in discussione l’ottimismo iniziale e mostrando lo sconforto di fronte al fallimento del presente.
The Missing Planet propone oggi come ultimo capitolo dell’ideale trilogia post-sovietica al Centro Pecci una mostra su un duplice passato, quello dell’utopia da un lato e quello della memoria dall’altro, a partire da opere delle due esposizioni precedenti.
Se Artisti Russi Contemporanei ha testimoniato la svolta mancata e Progressive Nostalgia ha evocato la storia perduta, la nuova mostra propone un approccio dove fantasmi e realtà fanno i conti con le rovine del futuro, in favore di un tempo che deve ancora accadere.
Per questo la mostra propone un immaginario cosmico che ha accompagnato l’epopea dell’Unione Sovietica, trasformando lo spazio espositivo del museo in uno Space Shuttle, dove Solaris di Andrei Tarkovskij incontra Kunst camera di Sergei Volkov come pure Once in the XX Century di Deimantas Narkevicius.
Can Altay ha ideato l’allestimento della mostra, costruendola sulla base del suo lavoro di configurazione su configurazione e su recenti esperimenti di allestimento, ideale per un incontro con gli altri lavori in mostra e, allo stesso tempo, un’apertura dello spazio espositivo del museo. Inglobando la raccolta con le opere in mostra, l’allestimento compone un ecosistema, una rete fra cose, storie, posizioni artistiche e il pubblico, diventando un insieme che promuove una differente gerarchia rispetto all’attitudine dello spazio neutro.
In questo modo Altay investiga le funzioni, i significati, l’organizzazione e la riconfigurazione dello spazio pubblico, come ha fatto con le collezioni del VanAbbe Museum di Eindhoven e di Arter-Vkv di Istanbul.