Mi “affezionai” ad Egon Schiele perché era un uomo decisamente sfortunato il quale, approssimandosi, finalmente, alla vita che voleva vivere (niente di eccezionale: una donna da amare e un figlio, una famiglia), se li vide portare via assieme alla propria vita, da una epidemia (chiamiamola pure pandemia), che aveva molte note di vicinanza con il Covid 19: l’influenza spagnola del 1918.
Quando si è insegnante di storia dell’arte non si ha il diritto di “preferire” un autore all’altro o “amare – odiare”, un tipo di espressione artistica. Tuttavia accade.
Gli allievi se ne rendono conto al momento in cui l’insegnate inserisce nel “programma” autori che a volte passano in sordina. Per me accadde con Egon Leon Adolf Schiele (Tulln an der Donau, 1890 – Vienna, 1918).
Neanche, per la verità, in quanto (io pittrice), mi piacesse il suo modo di dipingere. Confesso di essere molto legata all’armonia d’insieme ed ai pittori che riescono ad avvicinarsi di molto al reale.
Problema mio.
Mi “affezionai” ad Egon Schiele perché era un uomo decisamente sfortunato il quale, approssimandosi, finalmente, alla vita che voleva vivere (niente di eccezionale: una donna da amare e un figlio, una famiglia), se li vide portare via assieme alla propria vita, da una epidemia (chiamiamola pure pandemia), che aveva molte note di vicinanza con il Covid 19: l’influenza spagnola del 1918.
La chiamarono “spagnola”, un po’ come oggi il presidente americano Donal Trump ha definito “il virus cinese” il “nostro coronavirus (prima che ragioni strategiche di tipo economico gli consigliassero di evitarlo); la notizia, difatti, giunse nel febbraio 1918 (mese invernale, ovviamente) dall’Agenzia di stampa spagnola FABRA: «Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid … L’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi mortali».
Già. Non si era capito davvero quanto fosse grave e neanche che il virus avrebbe ucciso principalmente giovani tra i 15 e i 40 anni.
Si è poi giunti alla conclusione che la diffusione fosse a causa dei soldati americani sbarcati in Europa dal 1917 per prendere parte alla Grande Guerra, similmente a come accadde per il contagio della peste, nella terribile epidemia che si accese nel Nord Italia tra il 1630 e il 1631, portata in Lombardia dalla discesa delle truppe tedesche al comando di Albrecht von Wallenstein, dirette a Mantova per porre d’assedio quella città, tra le quali covava la peste in forma endemica.
Tutto ciò il nostro Egon che oggi consideriamo esponente di spicco dell’Espressionismo, non poteva prevederlo, mentre realizzava le sue opere, ossia trecentoquaranta dipinti e duemila ottocento tra acquerelli e disegni in una brevissima vita.
Aveva quindici anni quando il padre (1905) morì di sifilide “regalando (qualche critico sostiene) al figlio, la predisposizione per la creazione di opere dove l’erotismo appare spesso drammatico e torturato.
Iscritto all’Accademia di Belle Arti di Vienna crea dunque un suo stile, forse anche a causa dell’amicizia con Gustav Klimt. La sua arte esprime, da subito, specialmente nella prima personale del 1908, un animo profondo e inquieto, dove le figure distorte sembrano richiamare morte, malattia, dolore.
Ha diciannove anni, non è particolarmente felice, tuttavia è famoso in Austria. Viene annoverato tra gli artisti austriaci più interessanti dell’epoca.
E’ il 1910 quando, assieme alla sua modella, si trasferisce in un piccolo paese contadino: Krumau, dove non è ben visto a causa della convivenza fuori del matrimonio. Inoltre tende a ritrarre nudi provocanti di modelle giovanissime. Nel 1912 viene accusato di aver sedotto, rapito e corrotto una giovane modella quattordicenne.
Ne consegue il processo nel quale rischia una condanna a lunghi anni di carcere ed attende la sentenza in prigione, venendo accusato, infine, “soltanto” di avere esposto opere valutate come pornografiche.
Intanto, l’essere tormentato, si innamora proprio della modella Edith Harms e incomincia a sognare la gioia dell’amore e della famiglia.
Tuttavia, come dicevo all’inizio, Egon ed Edith non sono destinati a realizzare il quadro che lui dipinge: un ritratto di famiglia dove rappresenta se stesso, con la dona amata e il figlioletto: è il 28 ottobre del 1918 quando la febbre spagnola si porta via la moglie, incinta di sei mesi. L’artista farà la stessa fine il 31 ottobre.
«La famiglia», sarà il suo ultimo dipinto e la più triste rappresentazione della più tremenda pandemia (si spera), che abbia segnato l’umanità: l’influenza «spagnola» che, circa cento anni fa, mieté una persona su tre in tutto il mondo.
Le stime: tra i 10 e i 50 milioni di persone decedute. Il libro da leggere: «1918: l’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo» edito da Marsilio. Opera della giornalista scientifica Laura Spinney.
Articolo di Bianca Fasano