La prima delle tre forme del teatro classico giapponese, che videro il passaggio definitivo dalle manifestazioni ritualistiche al teatro vero e propri, fu il teatro Nō, capace di unire musica, danza e rappresentazione scenica, che si sviluppò a partire dal XIV Secolo e in 650 anni di pratica ed è arrivato fino ai giorni nostri e che nel 2003 l’Unesco la dichiarò Patrimonio Immateriale dell’Umanità.
Gli artisti più importanti, che ne fissarono i canoni artistici e la forma furono, i due attori drammaturghi, Kan’ami (1334-1385) e suo figlio (1363-1443).
Il Nō diede vita a uno spettacolo basato per la prima volta sulla specifica relazione tra scena e pubblico, che gli diedero quella duttilità sociale che ne è alla base, con elementi shintoisti, pre buddhisti e buddhisti fusi in modo inscindibile.
Nel Nō le performance stilizzate sono interpretate da un attore principale che viene chiamato Shite e si muove su un palcoscenico molto semplice, indossando una maschera detta no-men o omote, mentre la sua spalla è un attore secondario chiamato Waki.
Le parti danzate, conosciute come Climax, sono accompagnate da artisti, chiamati Hayashi, che suonano strumenti a fiato come i Fue, i tamburi Taiko a clessidra e spesso degli strumenti a Corda.
Il protagonista e il Waki cantano dei testi dotti e complessi che si scontrano con la semplicità di linguaggio delle parti recitate, conosciute come Teatro Kyogen, utilizzato all’inizio come un farsesco interludio tra gli atti del Nō.
Accanto ai due protagonisti del dramma c’è il coro, per esprimere quello che il protagonista e l’attore secondario dovrebbero dire.
La scena assomiglia allo spaccato di un edificio di pianta quadrata, sovrastato da un tetto in legno, mentre sul fondo c’è un pannello su cui è dipinto un pino caratteristico, e la connessione della scena alle quinte avviene con un ponte, fiancheggiato da tre pini.
L’unione dei generi teatrali, che si alternano sul palco nelle rappresentazioni, è chiamato Nohgaku.
Il repertorio attuale del teatro Nō è costituito da 253 drammi, che sono monodrammi incentrati attorno ad un solo protagonista e si dividono in due grandi categorie, Nō di sogno e- Nō della vita presente, che seguono un’identica struttura di base divisibile in dieci momenti.
Nel caso dei Mugen no, lo sviluppo narrativo può essere diviso in due parti da cinque momenti ciascuno.
La prima parte vede l’entrata di un viaggiatore, spesso un pellegrino diretto verso un luogo connesso con un avvenimento che la leggenda ha reso famoso, l’entrata di un abitante del luogo che si affianca al pellegrino giunto alla sua meta, un colloquio tra i due protagonisti, dove il pellegrino chiede all’indigeno di narrargli la storia connessa con quel luogo, il racconto della storia da parte dell’indigeno e la rivelazione della vera identità dell’indigeno alla fine del racconto, che è il protagonista della storia e l’uscita di scena dell’indigeno che lascia solo il pellegrino sul palco.
La seconda parte vede il pellegrino che attende il ritorno del protagonista, l’apparizione del protagonista, nell’identità di eroe della vicenda narrata in precedenza, un colloquio con il pellegrino, la revocazione con dell’episodio saliente della personale avventura terrena del protagonista e la sua scomparsa dalla scena e il risveglio del pellegrino che si accorge di aver sognato tutto.
L’interruzione che separa la prima dalla seconda parte, detta Ai, è riempita dal kyogen che riassume l’accaduto.
Oltre a questa prima grande classificazione ce n’è un’altra dove i drammi sono raggruppati in cinque tipologie che indicano la collocazione dei Nō nell’arco di una giornata ideale.
La riproduzione del repertorio No è affidata al complesso delle quattro compagnie di Hosho, Kanze, Kongo e Konparu, insieme alla scuola Kita.